Intervista a Francesca Innocenzi
1. Come nasce il titolo della sua raccolta di versi?
Il titolo suggerisce un’immagine del vuoto in quanto scaturigine della poesia. Il vuoto può essere più cose insieme. È lacuna e mancanza, quindi percezione dolorosa, che però può rivelarsi spazio fertile di nuove possibilità; una sorta di catarsi, di rinascita. Per me il vuoto è la solitudine, temuta e amata, che ha segnato la mia adolescenza, come pure la vertigine agorafobica degli attacchi di panico. Nel libro c’è anche questo. Il titolo denota anche l’attitudine a dotare il vuoto di uno spessore ontologico: di qui l’impiego dell’aggettivo qualificativo.
2. Perché ha scelto la tipologia dello haiku per il suo “Canto del vuoto cavo”?
Per un certo periodo, la metrica dello haiku (doppio, soprattutto) ha costituito per me una sorta di rassicurante contenitore. Mi sembrava avesse un ritmo intrinseco che trovavo appagante. Oggi trovo fuorviante definire haiku questi componimenti, poiché dello haiku c’è, appunto, poco: lo schema metrico, come anche la tendenza ad evitare l’uso della prima persona. Ma, in tutto il resto, vi è assolta libertà. E la natura resta sullo sfondo, ha un ruolo assolutamente marginale.
3. Quanto ritiene importante l’eredità della poesia greca e latina nella poesia contemporanea in generale e nei versi di Francesca Innocenzi in particolare?
La poesia greca e latina ha molto da dire a noi contemporanei: ci ricorda che la poesia abbraccia ogni essere, uomini, alberi, animali, minerali, insetti. E ci invita a riflettere sull’universalità del suo messaggio. In Canto del vuoto cavo ho impiegato alcuni termini in greco e latino, perché sono lingue che amo, soprattutto il greco. Ho scelto parole dotate di intensità sia a livello fonico che semantico, tanto da far risuonare una particolare armonia tra significante e significato.
4. Da dove nasce la sua passione per la poesia?
I miei esordi poetici sono certamente legati ad una certa atmosfera presente in famiglia: mio padre è stato anche lui docente di lettere e poeta. Scrissi la mia prima poesia all’età di sette anni, a quel tempo non conoscevo ancora i versi di mio padre. Solo più tardi, quando avevo quindici anni, lui pubblicò la sua prima raccolta, che apprezzai molto; probabilmente questo fatto fu all’origine di una stagione particolarmente prolifica per me: quell’estate scrissi tante poesie.
5. Qual è secondo lei il fine della poesia?
Credo che in questa epoca in cui si è perso il senso dell’essere collettività, la poesia possa fare molto, incentivando riflessioni scambievoli e condivise, portatrici di significati profondi. È quindi un invito alla riscoperta del simbolo, a spingersi oltre quanto è immediatamente fruibile, a coltivare l’arte del tempo e della pazienza.